COSA MANGIARE IN SALENTO

La cucina e le abitudini alimentari del Salento, sono il risultato del mix di popoli e culture che si sono avvicendati in questa terra nel corso dei secoli, dell’incontro dell’Oriente con l’Occidente di cui il Salento è stato protagonista data la sua posizione centrale e strategica nel Mediterraneo e della profonda conoscenza di un popolo intimamente legato alla terra, ai suoi prodotti e all’avvicendarsi delle stagioni.
Una delle bandiere dell’alimentazione salentina è la frisa: una piccola forma di pane cotto due volte e quindi di lunghissima conservazione, che viene bagnata in acqua e condita con pomodoro, olio e origano e che proviene dall’antica Grecia (tutt’oggi la troviamo assieme alle orecchiette nella cucina cretese)
Racconta Virgilio che fu Enea ad introdurle in Salento quando sbarcò a Porto Badisco e sicuramente sono un’eredità della colonizzazione delle coste salentine avvenuta a partire dall’VIII secolo a.C., quando c’erano ancora i Messapi e di cui rimangono profondi segni nei 9 comuni della Grecia Salentina.
E ancora la zuppa Gallipolina a base di pesci cotti in olio, cipolla, aceto e pepe è la “zuppa degli antichi greci”.
La puccia, cioè il pane farcito di olive, è invece il segno della dominazione Romana iniziata intorno al III secolo a.C.
Come pure la “scapece”: pesciolini fritti e conservati in una marinatura di pane sbriciolato, aceto e zafferano in botti tagliate a metà, di colore giallo vivo, si trovano in tutte le sagre e feste di paese, da provare assolutamente. Il suo nome deriva dal latino esca Apicii, perché Apicio nel suo De Re Coquinaria  del I secolo d.C., ne riporta una  ricetta molto simile.
Come conseguenza della scissione dell’impero romano d’Oriente e d’Occidente, arrivarono i Bizantini che dominarono a lungo, mentre contemporaneamente orde di pirati Arabi e Ottomani attaccavano, razziavano e distruggevano lungo tutta la penisola.
Troviamo la loro eredità culinaria in un’altra delle ricette salentine più tipiche i ciciri e tria:  delle specie di tagliatelle di acqua e farina, in parte bollite e in parte fritte e condite con una densa minestra di ceci. Ora una tradizione Cristiana racconta che le trie rappresentano i trucioli di legno della falegnameria di San Giuseppe, ma in realtà “tria” è la parola che usavano gli arabi per indicare la pasta secca.
Arriviamo nel 1071, con l’arrivo dei Normanni, e poi di seguito gli Svevi, gli Angioini, gli Aragonesi, i Borboni e da ognuno di loro i salentini assorbirono cultura costumi e gastronomia.
Agli inizi del ‘500 Antonio Galateo, medico e umanista, insorse contro la cucina spagnola fatta di vivande composte che considerava indigeste e pesanti, raccomandando l’uso diffuso di aglio e cipolla come ingredienti con proprietà di indurre una vita sana: ancora oggi semplicità è uguale a genuinità.
L’altra componente importante che caratterizza la cucina salentina è l’impronta contadina, fatta di ingredienti cosiddetti “poveri”, di una serie di prodotti della terra estremamente varia e legata ai ritmi stagionali.
Si inizia dal grano duro, che viene servito spezzato nelle minestre di legumi (un tempo veniva “stumpato” nei mortai scavati nella pietra, stretti e lunghi), utilizzato in innumerevoli prodotti cotti nel forno a legna come pani, focacce, pucce (praticamente dei panini conditi con olive o pomodori, capperi, cipolle, zucchine ecc. secondo la fantasia e la disponibilità dei prodotti) e poi ancora taralli, frise e biscotti.
E poi ancora la “pasta fatta a casa”, le più tipiche salentine sono le “sagne ‘ncannulate” (specie di lunghe e strette tagliatelle arrotolate fatte solo di acqua e farina) e le “ricchie coi minchiareddi” (cioè orecchiette con delle specie di maccheroncini, mescolati o “maritati”).
Anche la farina di orzo ha uno spazio sempre maggiore man mano che si scende verso sud, fantastiche le frise di orzo e la pasta fatta a casa.
Ma gli ingredienti più vari e usati con fantasia sono le verdure e i legumi che qui diventano minestre e pietanze principali, verdure di stagione e una grande quantità di erbe spontanee che ritmano il calendario e il passare delle stagioni. Verdure cotte nella “pignatta” (contenitore di cocccio) nel caminetto e arricchite con formaggio o con carne di maiale nei giorni di festa.
La primavera è un’apoteosi di cicorielle selvatiche, “zanguni” e “fritta” (il rosolaccio ripassato in padella con le olive nere piccole, semplicemente fantastico) e poi i lampascioni (piccoli bulbi selvatici lievemente amarognoli), i cridmi (germogli di succulente piantine diffusissime sugli scogli vicino al mare, che si lessano e si condiscono con olio, aglio, aceto, menta e pane grattugiato), la borraggine (fritta o in meravigliose minestre con i cereali) e molte altre ancora.
I legumi erano la principale fonte di proteine e pare che Pitagora fosse goloso di “purè di fave con le cicorie”, tanto da scriverne e consigliare l’uso dell’acqua piovana per la cottura delle cicorie.
Ma la tradizione offre anche i “piselli secchi con il grano stumpato”, i “ciciri e tria”, le fave fresche con il pecorino e una serie di meravigliose insalate tra cui bisogna assolutamente provare quella estiva fatta con patate e cipolle (possibilmente infornate nel forno a legna dopo aver finito la cottura del pane), pomodori, cummarazzi (una verdura diffusa solo in Puglia, delle specie di piccoli meloncini che si consumano verdi e croccanti), capperi, basilico, e olive, una vera delizia che da sola vale un pasto.
In alcune aree i contadini erano anche pescatori e anche nelle preparazioni di pesce la verdura ha un posto di preminenza, come nella “taiedda” (o tiella) una pentola di terracotta in cui si alternano strati di alcuni o tutti di questi ingredienti: zucchine, patate, pomodori, carciofi, cipolle e frutti di mare. O ancora il tradizionale polipo in pignatta con le patate (rigorosamente cucinato nella terracotta)
La carne compariva sulla tavola solo nei giorni di festa, ai matrimoni o nelle cerimonie.  I piatti più comuni sono i pezzetti di cavallo, cotti a lungo nella pignatta con tanto alloro, o le deliziose polpette al sugo, con cui si condisce la pasta fatta a casa.
Ma soprattutto tutte le preparazioni per utilizzare tutto di un animale e ridurre al minimo gli scarti: gli gnummareddi, detti anche turcineddi, involtini di interiora di agnello, cotti a lungo sulla brace e molto amati dai buon gustai e uno speciale sanguinaccio preparato con sangue di maiale mescolato a cervella di vitello, si dice che la sua bontà fosse così tanto apprezzata che trecento anni fa i leccessi  usarono il sanguinaccio come merce di scambio per ottenere una delle colonne terminali della via Appia dai Brindisini..
Molte le preparazioni laboriose per ottenere scorte di ingredienti da stivare per l’inverno, tra queste ricordiamo la “ricotta scanta”, ottenuta con latte di pecora, mucca e capra, una densa crema piccante che richiede una lunga e laboriosa preparazione e che viene usata per condire pastasciutte e alcune minestre; la conserva di pomodoro, anche questa ottenuta dopo un lungo procedimento usando la potenza del sole di luglio e agosto, generalmente piccante e da spalmare sul pane arrostito e tante verdure conservate sott’olio, o ancora i pomodori seccati al sole e conservati in grandi contenitori di terracotta.
A fine pasto è d’obbligo portare in tavola una coppa di finocchi e cicorie, crudi e puliti, pronti da sgranocchiare.
Un capitolo a parte meriteranno i cosiddetti “finger food” e la pasticceria

Post tratto dal bellissimo blog 
a cura de La Meta
www.lameta.net